Dal Vangelo di Matteo 25, 31-40
Scorrendo le pagine della biografia personale di santa Elisabetta d’Ungheria ci si rende immediatamente conto della forza prorompente che la fede può avere nella vita di chi sceglie di abbracciare lo stile del Vangelo; questa giovane donna, morta a soli ventiquattro anni, principessa, moglie, madre, vedova, donna consacrata, sorella dei malati e dei poveri, ci ricorda che non conta tanto la quantità del tempo che abbiamo a disposizione, ma la qualità e la profondità dei gesti che ci rendono capaci di imitare Cristo e di vederlo negli altri. Esperienza non facile e immediata, ma da ricercare con tutto se stessi e da richiedere a Dio come dono.
L’immagine che l’evangelista Matteo mette sulla bocca di Gesù al capitolo 15 ci parla del giudizio alla fine dei tempi; qui comprendiamo chiaramente come la vita del credente non può limitarsi alle parole e ai buoni propositi, ma è necessario diventare strumenti di giustizia sociale, costruttori di speranza e dispensatori di carità.
Nella sua profonda sensibilità Elisabetta vedeva le contraddizioni del suo tempo tra la fede professata e la pratica cristiana e non sopportava i compromessi. Una volta, entrando in chiesa nella festa dell’Assunzione, si tolse la corona, la depose dinanzi alla croce e rimase prostrata al suolo con il viso coperto. Quando fu rimproverata per quel gesto, ella rispose: “Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re Gesù Cristo coronato di spine?”.
Tutto questo è stato possibile perché questa giovane donna ha saputo radicarsi in una preghiera autentica e ha avuto l’umiltà di lasciarsi accompagnare nella comprensione della volontà di Dio da una guida spirituale.