Commento al Vangelo di Giovanni 18, 1 -19, 42
Passione è un termine che può sembrare ambivalente: etimologicamente deriva da “patire”, indica l’azione prolungata del soffrire; dall’altro lato acquisisce il valore di qualcosa che si vive per via di un forte amore che seduce senza costringere.
Passione non è “qualcosa che fa male” e non vedo l’ora che passi”. Non è nemmeno “qualcosa che sono costretto a vivere” e non posso farne a meno, ma se potessi lascerei perdere”. Passione acquisisce, dal vissuto stesso del Cristo, il sapore della Gloria senza dipendenze. Non è il sacrificio che vivo per ottenere qualcosa di buono, del quale vantarmi, ma è la fedeltà a un progetto di trasformazione della mia vita, perché si realizzi la Gloria di Dio. È abbandono che libera, accoglienza che spezza ogni catena, è lasciarsi condurre, permettere all’Amore di creare con la mia vita una storia diversa.
È scelta evangelica di non conservare ma perdere una vita che, se non è ben spesa, è insensata. È diventare disponibile a lasciarmi collocare, a passare di mano in mano, lasciando che non siano più le logiche della sopravvivenza a dare motivazioni, ma la logica dell’Amore a darmi senso.
Passione è il volontario lasciare che l’odio altrui diventi inconsapevole profezia d’Amore, perché solo dall’immenso paradosso del Dio-Uomo può essere rinnovata la vita che tanto desideriamo e alla quale aneliamo.
Entriamo in questa liturgia con la preghiera silenziosa e sciogliamo la nostra assemblea ancora una volta in silenzio, sentendo l’eco del Vangelo, della unica vera buona notizia: Cristo, pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono. (Eb 5,8-9)